Un libro fortemente significativo in cui la filosofa e scrittrice Michela Marzano racconta la lunga convivenza con l’anoressia.
Un manuale? Un’esperienza di vita? Credo che in questo libro ci sia tutto questo e molto di più.
E’ una storia molto raccontata, sentita particolarmente dalle famiglie e dai ragazzi che hanno incontrato e vissuto una malattia così intrusiva come l’anoressia.
“Lei è anoressica” le viene detto da uno psichiatra quando aveva poco più di vent’anni.
“Quando finirà questa maledetta battaglia?” chiede lei, anni dopo, al suo analista. “Quando smetterà di volere a tutti i costi fare contente le persone a cui vuole bene.” …

MICHELA MARZANO

VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA
Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere


Un libro fortemente significativo.
Un manuale? Un’esperienza di vita? Credo che in questo libro ci sia tutto questo e molto di più.
E’ una storia molto raccontata, sentita particolarmente dalle famiglie e dai ragazzi che hanno incontrato e vissuto una malattia così intrusiva come l’anoressia.
Michela Marzano, filosofa e scrittrice, racconta nel libro la convivenza con l’anoressia.  

“Lei è anoressica” le viene detto da uno psichiatra quando aveva poco più di vent’anni.
“Quando finirà questa maledetta battaglia?” chiede lei, anni dopo, al suo analista. “Quando smetterà di volere a tutti i costi fare contente le persone a cui vuole bene.”

Ho letto per la prima volta questo libro nel 2013 senza sapere a suo tempo che sarebbe diventato per me non solo una partenza ma un testo dove ritornare ciclicamente. Un libro molto conosciuto dalle ragazze affette dai DCA e dalle famiglie, che spesso richiamano durante le sedute, spingendomi ad andare a riprendere concetti importanti in pagine già più volte sottolineate e macinate. Sì, perché una volta che si legge rimane per la vita e, come scriva Michela Marzano, “L’anoressia è un sintomo. Che porta alla scoperta di quello che fa male dentro…” 

Buona lettura 


Volevo essere una farfalla. Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere - Michela Marzano - copertina

One thought on “VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA

  • 24 Luglio 2020 at 00:39
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    Michela Marzano, con “Volevo essere una farfalla”, mi ha regalato tantissime parole, mi ha aiutata a dare il nome a molti momenti e dolori, a una molteplicità di emozioni e contraddizioni che hanno caratterizzato a lungo la mia vita e a cui, proprio perché non definibili, non narrabili, non riuscivo a dare una forma, a rendere visibili a me stessa e, quindi, a fronteggiare, “smontare” e “mettere via”.
    Ho letto il libro decine e decine di volte, inserendo vari post-it per segnarmi le pagine o le frasi che, di volta in volta, risuonavano più fortemente dentro di me.
    Durante l’ultima mia lettura, mi ero segnata tre parti.
    “La cosa più difficile è far capire. Quella sofferenza che è dentro. Immensa. Senza fondo. Che non lascia trasparire nulla. Perché dall’esterno non si vede. Hai tutto. Assolutamente tutto. Bellezza, intelligenza, sensibilità. Una famiglia, degli amici, dei diplomi. Non sei malata. Cioè sì, lo sei, ma nell’unico senso inaccettabile del termine, perché, per gli altri, sei tu che sei all’origine della tua malattia. […] E allora come far capire agli altri che in quel magnifico tutto manca l’essenziale? Come spiegare loro che, nonostante tutto quello che si ha, manca la semplice e banale evidenza che vivere è bello? Come trovare le parole per dire che manca la gioia. Manca la pace. Manca la forza di affrontare il mondo. Perché manca la voglia… […] In quei momenti, non è la morte che fa paura. la vita. Perché la morte è solo una liberazione da quell’incubo che ti annienta…” Che difficile spiegare il male di vivere, la sofferenza dell’anima!! Che impresa trovare chi sia disposto a mettere da parte il suo giudizio su chi sta tanto male dentro e provi, piuttosto, ad accogliere il suo sentire, con un po’ di empatia! Quel desiderio di niente -che annienta la voglia di stare al mondo- altro non è che desiderio dell’Altro, desiderio di assoluto. La fame di cibo è fame d’amore, di riconoscimento, di autenticità, di bellezza, di ricerca. Fame di Dio. Solo con il ritorno del desiderio potrà ricomparire la voglia di vivere e, successivamente e in un crescendo continuo, la gioia di esistere, di essere, di amare, di darsi. Il percorso umano inizia veramente, come ci ricorda Dante, quando usciamo dall’inferno e torniamo a “riveder le stelle”.
    Dal secondo post-it: “In fondo, si vive sempre e solo quello che si vuole vivere. È da lì che si deve ripartire. Per desiderare quello che si ha già. Senza passare il tempo a sperare che forse un giorno tutto sarà diverso. Perché tutto è già diverso, non appena si fa la pace con i propri ricordi. Quelli che smetteranno di accompagnarci quando avremo ritrovato quei profumi e quei rumori, la fine della fatica, l’inizio della gioia”. Ci vuole tanto tempo per acquisire alcune fondamentali consapevolezze, che ci facciano capire quali dinamiche e quali pensieri si trovino nei primi centimetri della lunga matassa che attorciglia chi è attraversato da un disturbo alimentare. Ma ce ne vuole pure molto per fare pace con se stessi, per perdonarsi, per darsi la possibilità di guardare con altre lenti il proprio passato, il proprio presente, il proprio futuro…per concedersi il proprio futuro, per tornare ad inventarlo, a costruirlo liberamente, a piacere. Certamente, ci sono infiniti segni che si sono incisi dentro e fuori ciascuno di noi, ma la nostra memoria può operare tra questi scegliendo in apparenza misteriosamente, secondo il senso che ognuno vorrebbe dare alla propria esistenza. Un senso abbozzato in quella meravigliosa promessa di cui ciascuno è portatore, titolare.
    La terza frase che mi sono appuntata, recita così: “È forse l’unica cosa che ho veramente capito: nella vita non si può fare altro che accettarsi. Ed essere indulgenti. E perdonarsi”. Accettarsi è concedersi di essere se stessi fino in fondo, con i nostri limiti, le nostre fragilità, la nostra umanità, la nostra unicità, le nostre straordinarie qualità. Accettarsi è non sentire più la necessità di voler apparire diversi da chi si è per la paura di non essere accolti e amati, per la paura di essere giudicati sbagliati, per non corrispondere a quell’idea di noi che ci pare (a volte pure erroneamente) che gli altri ritengano come unica identità per noi. Dopo essersi perdonati ed accettati profondamente, si diventa persone libere. E “non esistono liberatori, ma persone che si liberano” (T. Olivelli).
    Grazie Michela!

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